Food
di Alessandro Minnino 6 Agosto 2020

3 punti di vista su Vertical Farming e Acquaponica in Italia

Un nuovo modo di coltivare le piante, con luce, acqua e nutrienti controllati si sta diffondendo anche in Italia, 

Immaginate la versione contemporanea di una serra, in cui le piante trovano spazio – a ripiani – anche in verticale, in cui la luce è controllata, l’acqua e i nutrienti anche.

Questo è il vertical farming, una modalità di coltivazione che si sta diffondendo, seppur gradualmente, anche in Italia.

Questa tecnica arriva in un momento storico in cui il consumo planetario di carne ha raggiunto il suo picco e diversi trend culturali spingono, invece, verso un’alimentazione che sia sempre più basata sui vegetali.

Qual è lo stato dell’arte? Esiste vertical farming in Italia? Se davvero è così potente, perchè non è ovunque?

Ne abbiamo parlato con quattro o cinque persone che lavorano concretamente su questi temi.


Antonio Scarponi, designer “Non coltiviamo pomodori, ma cittadini

La prima persona con cui abbiamo parlato è Antonio Scarponi: progettista italiano, basato in Svizzera, da anni realizza sistemi di vertical farm “casalinghe”, realizzate con elementi accessibili.

Alcuni anni fa hai sviluppato dei progetti acquaponics, super interessanti. Me li racconti?

Si, mi sono occupato a lungo di aquaponica (AKA aquaponics) e anche molto di idroponica (AKA hydroponics). Per chiarire, l’aquaponica prevede l’uso di pesci per fertilizzare le piante che crescono in acqua in maniera simbiotica con i pesci: i pesci fertilizzano le piante, le piante in cambio depurano l’acqua per i pesci e noi possiamo mangiare entrambi.

“I pesci fertilizzano le piante, le piante in cambio depurano l’acqua per i pesci e noi possiamo mangiare entrambi”

Nel 2011 ho realizzato la prima serra aquaponica in Europa su un tetto industriale di Basilea. Poi ho fatto diversi esperimenti, tra cui un aggeggio in grado di produrre un pasto al giorno (duecento grammi di pesce e una porzione di insalata), che ho realizzato per una mostra a Stoccolma. L’ho chiamato Malthus, in onore del grande scienziato che per primo si è posto il problema di quanto cibo la terra può produrre per sfamare la sua popolazione.

Poi mi sono posto un altro problema, e sempre grazie ad una mostra, al Salone del Mobile di Milano curata da Stefano Mirti e Marco Petroni, ho fatto una piccola installazione idroponica fatta con pezzi prodotti e distribuiti da IKEA dove però questa volta dove il ‘pesce’ ero io. Ovvero ho esplorato l’ipotesi di utilizzare le urine umane (le mie) come fertilizzante e delle scatole di IKEA che normalmente vengono vendute per tenere in ordine le camerate dei bambini come recipiente. Si tratta di una provocazione simbolica, le urine umane da un punto di vista biologico sono identiche a quelle di un pesce e ne servono quantità omeopatiche. Per cui il tutto è incolore, inodore, etc. Ma mi piaceva mettere a nudo il circuito tra escrezione, produzione ed alimentazione, che normalmente prende delle vie più lunghe ma nella sostanza non cambia. Per chiarezza: prima di cimentarmi ho trovato un documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che dava indicazioni precise su quantità, raccomandando questa pratica ai paesi in via di sviluppo, solo alla condizione che le suddette provenissero da un individuo sano. Mentre sappiamo tutti benissimo che ai pesci di allevamento vengono normalmente somministrate ingenti dosi di antibiotici. Questo progetto poi diventò un libro chiamato ELIOOO, ovvero come crescere cibo in casa per mezzo di pezzi IKEA. Progetto che gira tutt’ora per musei e scuole attraverso workshops, etc.

E’ un modo per coltivare la città.

Ci tengo a dire che mi interessa l’agricoltura urbana fuori terra perché dal mio punto di vista è un modo per coltivare la città, ovvero generare valore da aree non altrimenti sfruttabili, come i tetti industriali. Questo vuole dire non solo produrre cibo, ma posti di lavoro e perché no, un po’ di tempo da passare all’aria aperta con le piante, che nel caso dell’agricoltura urbana è il valore più importante del suo fatturato, non si potrà mai competere con un pomodoro coltivato all’aperto da una persona senza diritti a due euro al giorno.

Su questa linea che mi permette di pensare all’agricoltura urbana come un sistema per crescere coscienze (e pomodori) ho realizzato progetti a diverse scale, esplorando il rapporto tra il prezzo e il valore dell’agricoltura urbana. Qualche esempio: una serra in grado di produrre fino a dieci chilogrammi al giorno in venticinque metri quadri (Hedron), ad una serra verticale a San Francisco in grado di produrre fino a cinque tonnellate al giorno in mille metri quadri (Farm-X), fino ad un progetto per le UN-food system dove ho fatto un manuale molto molto semplice praticamente di sole immagini per un progetto in una favela in Colombia.

I tuoi progetti hanno attirato l’attenzione di clienti aziendali. Perché le aziende si avvicinano a questo mondo?

Dipende. Le mie committenti sono state e sono aziendali, anche, nel mio caso istituzioni, comunità e organizzazioni. Ma come ho detto in agricoltura i margini sono bassi e in città è molto più difficile sfruttare delle braccia a basso costo. Questa è una realtà che noi consumatori non vogliamo vedere. Io sono per la produzione del valore che sta attorno all’agricoltura urbana che come ho cercato di spiegare non cresce ‘pomodori’ ma cittadini con consapevolezza ambientale e una migliore qualità della vita. La catena del valore è un po’ più lunga e condivisa e non è un’economia di scala lineare, ovvero che cresce in maniera esponenziale come una startup che coltiva i dati dei suoi utenti. Ma questo meccanismo credo che saresti più bravo tu a spiegarlo.

Nel frattempo sono passati diversi anni. Hai seguito le evoluzioni di questo mondo? cosa è cambiato?

L’agricoltura urbana era un po’ come il sesso per teenager per usare un’espressione di moda allora relativa all’imprenditoria sociale, ovvero: tutti ne parlano e qualcuno lo fa’ (male).

I problemi dell’indoor farming

Lo chiedo a te come progettista: quali sono i punti deboli dell’indoor farming (se ce ne sono)? perché non è ancora decollato?

Credo di averti già risposto. I costi di installazione sono alti se confrontati all’agricoltura tradizionale e i tempi di recupero sono lunghi e in una prospettiva di crescita per forza di cose lineare. Come tutte le catene della produzione del valore relative alla produzione di ‘cose’, la prospettiva di profitto si fonda su una economia di scala che poggia sullo sfruttamento del basso costo di manodopera e sul basso costo dei trasporti.


Matteo Benvenuti, Vertical Farm Italia – “L’indoor farming varrà 22 miliardi di dollari entro il 2026”

Da Antonio Scarponi, portatore di una visione sperimentale e basata sull’individuo, passiamo a Matteo Benvenuti di Vertical Farm Italia, un “gruppo multidisciplinare che accoglie al proprio interno tutte le competenze necessarie per realizzare progetti completi di orti verticali autosufficienti”.

Cercare l’autosufficienza e la sostenibilità delle comunità

Lo fanno per privati, aziende e città, operando nel settore agricolo, ricettivo, divulgativo, urbanistico e sociale. Il loro obiettivo è “diffondere al livello nazionale e internazionale queste nuove strutture produttive […] per garantire una maggiore autosufficienza e sostenibilità delle comunità”.

Matteo Benvenuti dopo aver studiato per alcuni anni i problemi legati alla sostenibilità delle città e della produzione di cibo, coinvolge alcuni colleghi e amici nella realizzazione di quella che è stata “la prima vertical farm acquaponica autosufficiente italiana”.

Da lì Vertical Farm Italia dà vita a innumerevoli progetti come Wasphortus (la prima vertical farm domestica totalmente realizzata con una stampate 3D) e Totem Farm (una serra verticale autosufficiente che in un solo metro quadrato è in grado di produrre contemporaneamente oltre 400 piante).

Matteo, mi racconti il sistema acquaponico?

L’acquaponica è una tecnica di coltivazione fuori suolo che unisce l’acquacultura (di ricircolo) e la coltivazione idroponica, al fine di ottenere un ambiente simbiotico che consente di produrre contemporaneamente piante e pesci. Un impianto acquaponico è molto simile a quello idroponico con due sostanziali differenze: il serbatoio della soluzione nutritiva viene sostituito da una o più vasche per l’allevamento ittico; all’impianto si aggiunge un filtro biologico (in parte costituito anche dal substrato di coltivazione) in cui si formerà la colonia di batteri nitrificatori che decomporranno i composti azotati secreti dai pesci in nitrato facilmente assorbibile dalle radici delle piante. Una volta passata attraverso i banchi di coltivazione e depurata dalle radici, l’acqua può essere reimmessa nelle vasche di allevamento dei pesci, chiudendo completamente il ciclo.

I vantaggi dell’acquaponica

I vantaggi di tale tecnica di coltivazione sono un notevole risparmio idrico rispetto alla coltivazione in campo aperto, un importante controllo qualitativo e igenico-sanitario sulle produzioni e la possibilità di produrre contemporaneamente pesci e piante con una minore necessità di elementi nutritivi. 

Chi compra i vostri sistemi?

I nostri progetti sono richiesti da diverse tipologie di committenze per le quali sviluppiamo progetti unici e “su misura” in grado di rispondere alle loro specifiche esigenze.

Per i privati, generalmente, progettiamo strutture di piccole dimensioni che consentono di avere piccole produzioni per l’autoconsumo o la vendita al dettaglio su piccola scala. Sono indicate per chi vuole effettuare dei test preliminari prima di intraprendere un’avventura imprenditoriale, per chi vuole generare un reddito secondario complementare, per chi vuole produrre localmente il proprio cibo, per chi vuole rendersi sempre più autosufficiente dal punto di vista alimentare e crearsi uno stile di vita più sostenibile.

Sviluppiamo progetti per vertical farm sia per aziende agricole che vogliano incrementare la loro produzione orticola ma anche a quelle che fanno parte di altri settori quali: turistico, espositivo, formativo, ecc… ambiti, cioè, in cui la produzione non è il focus principale.

Tutte le nostre committenze aziendali sono accomunate dal voler investire in nuove tecnologie di produzione a basso impatto ambientale ed altissima resa, che vengono declinati in vario modo a seconda delle specifiche esigenze di ognuna.

Abbiamo sviluppato progetti per start-up che volevano effettuare uno scale-up, per le aziende che volevano offrire un servizio ai propri dipendenti, per chi voleva produrre e distribuire cibo a km zero, per le aziende zootecniche che volevano avere foraggio sempre fresco per i propri animali, ecc…

Infine, lavoriamo anche con gli enti di governo del territorio per sviluppare progetti che, magari unendo pubblico, privato e società civile, consentano di intraprendere un percorso comune verso la sostenibilità, l’economia circolare e l’autosufficienza. Nello specifico sviluppiamo progetti per recuperare aree urbane inutilizzate o strutture abbandonate conferendogli nuova vita. Uno dei progetti più interessanti a cui stiamo lavorando è una vertical farm underground che, oltre ad essere un sistema di produzione orticola, sarà un piccolo centro di ricerca per la nuova agricoltura.

Il settore dell’indoor farming è in crescita? quali potrebbero essere gli sviluppi futuri?

Quali sviluppi futuri per l’indoor farming?

Il settore dell’indoor farming è in forte ascesa, alcuni analisti prevedono che nel 2026 al livello mondiale il settore varrà 22 miliardi di dollari. Gli sviluppi futuri sono molto legati allo sviluppo di tecnologie hardware e software sempre più efficienti in grado di ridurre sempre di più i costi di investimento e di gestione delle vertical farm.

In Italia il settore dell’indoor farming sta avendo una rapida espansione, anche se ancora non siamo ai livelli europei o americani. Infatti, ha iniziato a crescere dopo Expo 2015 e la pandemia sta accelerando il processo, sia per la necessità di avere maggiore autosufficienza, qualità e sicurezza di ciò che mangiamo, sia perché sta diventando uno dei settori green più promettenti su cui rivolgere le risorse finanziarie.

Sono interessato alla parte “per la città” nel vostro sito. esistono progetti pubblici di vertical farming in italia?

In Italia, molte amministrazioni pubbliche stanno lavorando su temi legati all’urban farming e alla produzione agricola in città, con due obiettivi: da un lato riqualificare aree abbandonate della città, dall’altro perseguire gli obiettivi di sostenibilità e resilienza ormai imprescindibili. Stanno nascendo numerosi piani urbanistici che spesso integrano l’agricoltura urbana e riforestazione urbana. Noi, in collaborazione con la facoltà di Ingegneria di Perugia e finanziati da una Borsa di studio della regione Umbria, ci siamo occupati, già otto anni fa, di un progetto per la periferia della città di Perugia, in cui proponevamo di recuperare l’area dell’ex mercato ortofrutticolo attraverso la creazione di un polo agroalimentare cittadino che unisse l’agricoltura urbana ed il vertical farming al fine di rendere autosufficiente quell’area della città.

Precedentemente, avevamo sviluppato un progetto di infrastruttura agroalimentare cittadina per una cittadina in Marocco. Attualmente stiamo lavorando con un’amministrazione comunale a un piano di riconversione di un’antica struttura ipogea in vertical farm che getterà le basi per la creazione di una nuova filiera agroalimentare che, integrando nuove tecnologie agricole e agricoltura tradizionale, consentirà a quel territorio di rendersi maggiormente autosufficiente e generare nuovi flussi di cassa e lavoro.


Luca Travaglini, Planet Farms – “La nostra rucola ha più vitamina C di un kiwi”

La più grande vertical farm europea è in Italia

Negli ultimi mesi ha avuto un’importante esposizione mediatica il progetto “Planet Farms”, che si propone di creare la più grande vertical farm europea a Cavenago, a due passi da Milano.

Luca Travaglini è uno dei due amministratori delegati dell’azienda. L’idea viene proprio a lui, durante un viaggio di ritorno dal Giappone: in quel momento il vertical farming è in intensa ascesa in Asia, anche come risposta al disastro ambientale di Fukushima. Luca Travaglini decide di portare in Italia una tecnologià già largamente diffusa all’estero e si trova a fare i conti con diversità culturali, normative e di mercato.

Cosa mi puoi dire di Planet Farms?

Planet Farms è una startup innovativa agricola: si tratta di uno spin-off dal gruppo di famiglia, che si occupa da sempre di tecnologie alimentari. Siamo partiti da cinque anni di intensa attività di ricerca e sviluppo.

Dopo aver dedicato molto tempo e risorse mi sono accorto che le soluzioni esistenti non erano applicabili in Europa, men che meno in Italia, per diversi fattori.

Prima di tutto per motivi igienici e sanitari. In campo alimentare, le norme italiane spesso sono molto più restrittive di quelle straniere.

Secondo, quello che facciamo con il vertical farming è convertire un consumo elettrico in una foglia vegetale.

La variabile principale è il costo dell’elettricità

Per questo il costo dell’elettricità è la variabile principale a cui fare attenzione: in Giappone, Olanda, Stati Uniti questi costi non sono paragonabili all’Italia.

Terzo, il mercato Italiano è diverso da quelli stranieri, perché da noi i prodotti sono largamente disponibili, di buona qualità e a basso prezzo. Invece all’estero, in alcune aree semplicemente il prodotto finale non c’è, non è disponibile: pensa che in America vendono l’insalata a 130 euro al kg. E spesso è insalata di qualità bassa.

Invece in Italia il consumatore è molto esigente: qui c’è una storicità del food, è molto diverso a livello culturale.

Quindi cosa avete deciso di fare?

Qui produciamo di meno, ma il prodotto deve essere il migliore al mondo,

Abbiamo fatto ricerca più avanzata di altri player, 10 milioni di euro investiti in ricerca.

Magari altri player hanno sottovalutato la scala e hanno deciso di partire con piccoli lotti di produzione, privilegiando il time to market.

Con Planet Farms abbiamo deciso di fare le cose su scala più ampia. Oggi siamo addirittura partner esclusivi di Philips (Signify): all’inizio facevano prove comparative sull’efficacia dell’illuminazione a Eindhoven e a Cinisello, oggi metà del centro di ricerca di Eindhoven è gestito insieme a noi.

Lo stabilimento di Cavenago sarà unico al mondo a livello di automazione e di igiene.

Siamo costretti ad avere degli standard altissimi e a puntare su un buon ritorno dell’investimento: abbiamo coinvolto una cordata di aziende (da npower a Sirti) che si aspettano il massimo da noi.

Per questo lo stabilimento di Cavenago, che è in costruzione, quando sarà attivo (da fine dicembre) sarà in grado di produrre tra le 40.000 e le 70.000 confezioni di insalata al giorno: saremo in grado di soddisfare le esigenze della grande distribuzione.

Scegliamo le insalate in base alla qualità del prodotto che possiamo ottenere

Scegliete le varietà vegetali in base al rendimento economico che hanno?

Scegliamo le insalate in base a quelle che ci permettono di avere miglior prodotto possibile

Il rendimento al metro quadro è abbastanza importante, ma non è così importante, prima di tutto puntiamo alla qualità eccelsa.

Ci sono dei vostri concorrenti in altri paesi che sono particolarmente interessanti?

Non consideriamo gli internazionali come competitor, ma come parte dello stesso sistema

Ma ho deciso di fare una cosa italiana, dimostrare che ce la possiamo fare nel mercato più complesso, a livello di costi energetici e manodopera.

Ma quindi, lavorando con la GDO, sarete terzisti o lancerete un vostro brand?

Usciremo con un marchio nostro, che non sia un brand nazionale ma internazionale ,sulla grande distribuzione. Oltre a Cavenago abbiamo in preparazione altri 4 stabilimenti, uno in un aeroporto milanese, uno in Svizzera e uno in UK. E uno nel “tempio della cucina in Italia”.

Lavoriamo con gli chef stellati: vogliono offrire sempre lo stesso prodotto, con livelli qualitativi omogenei, mentre il prodotto di madre natura ogni volta è diverso.

Arriviamo ad avere la rucola che ha la stessa quantità di vitamina C del kiwi. L’illuminazione di Philips ci permette di controllare lo spettro nella sua totalità, quindi solo sulle frequenze migliori: non usiamo tutto lo spettro di luce, riusciamo a variare come fa madre natura (lo spettro luminoso che hai all’alba è diverso da quello che hai al tramonto) quindi la luce viene calibrata precisamente. Allo stesso modo l’acqua, in modo da avere acqua sterilizzata con solo sali minerali utili.

Al contrario di quanto si pensa gli ortaggi si devono tutelare dalle condizioni ambientali, il nostro prodotto invece vive sempre nelle condizioni migliori possibili, contiene tutte le vitamine e tutti gli antiossidanti.

Stiamo sostituendo alla chimica la tecnologia, per avere il prodotto più puro al mondo.

 

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